Scriveva Roland Barthes che ciò che la fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo una sola volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai più ripetersi esistenzialmente.
Un fotografo di talento è ormai una rarità. Probabilmente ha il potere di catturare il meglio dalle persone che ritrae. E credo che sia estremamente difficoltoso. Nel suo obiettivo non passano solo immagini, ma storie. Aristide Mazzarella, fotografo salentino di terza generazione, racconta in questa intervista il suo percorso professionale, fatto di incontri, ricerca continua e un grande amore per la fotografia intesa come racconto umano. Dalle prime esperienze giovanili a Londra ai set cinematografici, passando per ritratti istituzionali, Mazzarella ci apre le porte del suo studio e del suo sguardo. La fotografia scorre nelle sue vene praticamente da sempre. Un percorso professionale e umano quello del neritino Aristide Mazzarella che lo ha portato a spaziare dai ritratti istituzionali alla fotografia industriale, dai matrimoni ai set cinematografici. Mazzarella è uno dei più apprezzati fotografi italiani. In questa intervista racconta il suo sguardo sul mondo e sul mestiere.
La fotografia è una tradizione di famiglia. Cosa ha ereditato dai suoi predecessori e cosa ha portato di nuovo?
Fin da piccolo ho respirato questa passione grazie a mio padre e a mio prozio. È qualcosa che ormai sento parte di me, quasi iscritta nel DNA. Più che cambiare, ho cercato di arricchire: ho ampliato il mio campo includendo la fotografia pubblicitaria e industriale, pubblicata spesso anche su testate di rilievo.
Ricorda il suo primo vero incontro con una macchina fotografica?
Sì, è un ricordo indelebile. Ero a Londra, giovane e pieno di entusiasmo, con una biottica 6x6 Minolta prestatami da mio padre. Era il giorno del matrimonio tra Carlo d’Inghilterra e Lady Diana Spencer. Mi ero preparato per fotografare il corteo, ma pochi minuti prima del loro passaggio la macchina si guastò. Dovetti correre ad acquistare una Yashica Mat 124, anche perché mi attendeva il mio primo servizio matrimoniale, affidatomi da un collega italiano impossibilitato a svolgerlo.
Ha ritratto politici, vescovi, imprenditori, ma anche personaggi molto diversi. Come cambia l’approccio in base al soggetto?
Ogni persona richiede uno sguardo e un’attenzione specifica. Cerco sempre di metterli a loro agio, di cogliere i movimenti, le espressioni, i tratti più armoniosi. Valuto il contesto, la professione e il motivo dello scatto. L’obiettivo è far emergere la loro vera personalità, senza forzature, restituendo immagini il più naturali possibile.
C'è uno scatto che le è rimasto particolarmente nel cuore?
Sì, durante un servizio di matrimonio. Gli sposi si incrociarono per caso con una coppia anziana. Per un attimo, ho visto come una proiezione nel tempo: i giovani osservavano inconsapevolmente la loro possibile immagine futura. Quando ho rivisto la foto sul monitor, mi sono commosso. È diventata una delle immagini più apprezzate anche sui social.
Tecnica e intuito: quanto pesano nel suo lavoro?
Sono entrambi indispensabili. Ma non basta: bisogna nutrire continuamente lo sguardo. Per questo guardo molti film, visito mostre, osservo l’arte in ogni sua forma.
C'è un volto che avrebbe voluto fotografare, ma non ha mai avuto occasione?
Ho avuto il privilegio di ritrarre molte personalità del mio territorio, ma non ho mai avuto un desiderio preciso. A volte i soggetti comuni regalano emozioni inaspettate. Certo, fotografare personaggi di rilievo internazionale sarebbe stimolante, ma vivendo lontano dalle grandi città queste opportunità sono più rare.
Il Salento, terra di luce e colori, ha influenzato il suo sguardo fotografico?
Assolutamente sì, anche se è difficile definire esattamente come. Di certo questa terra ha ispirato anche molti registi che la scelgono come ambientazione per i loro film.
Riesce sempre a mettere a proprio agio chi posa davanti al suo obiettivo?
È fondamentale instaurare un rapporto di fiducia. Evito il "lei" per creare un’atmosfera più intima e rilassata. Bisogna saper osservare e ascoltare, scegliere la luce giusta e l’angolazione migliore, ma anche essere un po’ psicologi. I risultati, fortunatamente, sono spesso gratificanti.
Come vive il passaggio dalla pellicola al digitale?
Oggi il digitale è uno strumento imprescindibile, soprattutto per rispondere alle richieste rapide dei clienti. All’inizio ero scettico, anche perché la qualità non era ancora all’altezza. Ma ora il livello è altissimo. Detto ciò, la pellicola mantiene sempre un fascino particolare: non ho mai venduto le mie vecchie fotocamere, e spero un giorno, magari in pensione, di poterle riutilizzare.
Che consiglio darebbe a un giovane fotografo che vuole raccontare il mondo?
Consiglio di studiare a fondo la fotografia in tutte le sue forme. In un mondo spesso dominato dalle apparenze, la preparazione e l’esperienza nei vari generi permettono di affrontare con professionalità le diverse sfide del mestiere.
Ha lavorato anche come direttore della fotografia in ambito cinematografico: com'è stata questa esperienza?
Ho avuto la possibilità di cimentarmi in questo ruolo in alcune produzioni locali. In un caso, un film girato in digitale è stato poi trasferito su pellicola 35 mm presso gli studi Augustus di Roma ed è stato proiettato al cinema. Ho inoltre realizzato un documentario sul parco di Porto Selvaggio, visibile su YouTube, che mi ha permesso di essere finalista in due concorsi internazionali.
C'è un regista che considera un suo riferimento?
Amo il cinema di Stanley Kubrick, Alan Parker e Giuseppe Tornatore, ma in realtà guardo di tutto: ogni film offre spunti e insegnamenti preziosi.
Il suo sogno nel cassetto?
Senza dubbio: dirigere un film.
Marco Marinaci
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